di Marco Triolo
I fratelli Wachowski sono responsabili di uno degli ultimi cult assoluti della fantascienza americana. Non fraintendete, il mio non vuole essere un banale discorso tipo “non si fanno più i film di una volta”, ma è innegabile che Matrix sia l'ultima icona riconoscibile di un genere che, negli ultimi anni, è tornato alla ribalta con film di sicuro valore (District 9, Moon, Automata, solo per citarne alcuni), ma comunque piccoli. Quella di Matrix è l'ultima saga originale ad essersi stampata nella memoria collettiva, indipendentemente dalla riuscita dei sequel.
Per questo, quando i capoccia della
Warner Bros. hanno deciso di voler imbastire un nuovo franchise
originale, dunque non tratto da alcun libro, fumetto, videogioco o
quant'altro, che fosse in grado di battere cassa facendo presa sui
fan delle moderne saghe young adult, hanno avvicinato proprio i
Wachowski. La loro capacità di immaginare universi ambiziosi e
interessanti si è confermata nel recente Cloud Atlas, e lo studio
voleva proprio sfruttare questa vena creativa.
I Wachowski hanno dunque fatto quello
che sanno fare meglio: ripescare vecchie idee, rimescolarle e
modellare da esse qualcosa che apparisse originale. Dopo tutto, lo
hanno fatto anche con Matrix, che risultava completamente nuovo pur
essendo costruito con elementi “rubati” a destra e a manca, una
specie di mostro di Frankenstein cinematografico. Come Matrix era una
combinazione di elementi mutuati dai film di arti marziali, dal noir
di Hong Kong alla John Woo e dalla saga di Terminator, così Jupiter
– Il destino dell'universo è un pastone di narrativa
fantasy/fantascientifica del Novecento, da Flash Gordon a Star Wars.
Una vera e propria telenovela spaziale in cui gli intrighi di palazzo
hanno lo stesso peso delle sequenze di effetti speciali. Eppure,
nonostante l'impegno profuso, siamo ben distanti da Matrix. Dunque,
che cosa è andato storto?
È semplice: nel cinema di genere non è
importante essere originali a tutti i costi, quanto saper mescolare
bene idee già viste. Lo diceva anche Picasso: “Il mediocre copia,
il genio ruba”. Non conta, dunque, COSA si racconta ma COME lo si
racconta. E proprio qui casca l'asino: se Matrix era infarcito da
cima a fondo di concetti strabilianti e personaggi carismatici, a
Jupiter manca molto di tutto questo. C'è una sola idea buona di
fondo, che richiama apertamente Matrix: quella degli esseri umani
letteralmente “allevati” come bestiame da sacrificare per creare
il siero dell'eterna giovinezza grazie a cui gli alieni (umani come
noi, in realtà) continuano a dominare l'universo da millenni. I
costumi e le scenografie sono visivamente straordinari, ma a volte
troppo elaborati e “digitali” per emozionare. Il grosso problema
è che molti degli sfondi sono esattamente questo: sfondi, senza
alcuna parvenza tridimensionale (nonostante il 3D). Peggio ancora:
gli oggetti realizzati al computer, che siano armi, persone o
gigantesche astronavi, non hanno alcun peso e non ingannano la
percezione dello spettatore, che capisce subito di trovarsi davanti a
degli elaboratissimi pixel. Per il resto, il film è un susseguirsi
di scene d'azione incredibilmente confuse, per essere girate dagli
autori di Matrix, e personaggi piatti e dimenticabili. E se Channing
Tatum ce la mette tutta nei panni del guerriero/licantropo Caine
Wise, Mila Kunis risulta quasi disorientata in mezzo a tanto fasto
visivo decadente.
Manca, in definitiva, quel qualcosa in
più, il collante speciale capace di rendere fresco ciò che è
invece precotto. I Wachowski c'erano riusciti egregiamente in
passato, ma forse hanno perso la mano. Di certo, il pubblico
americano se n'è accorto: con un budget ufficiale di 175 milioni di
dollari (in realtà è costato molto di più), ne ha incassati in
patria solo 23. Una cosa è certa: i capitoli successivi non li
vedremo mai.
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