PLUTO – Il Manga che pensa al futuro
di Luca Cremonesi
Nell’ultimo numero della nostra rivista cactacea – Comics Factory – mi sono occupato del comics “Tron”, versione ufficiale del film “Tron – Legacy” – pellicola attesa più di Avatar, con trailer messi in onda già nel 2009 – diretto da Joseph Kosinski, sequel di Tron (1982). Il perché è semplice: sulla carta doveva essere l’evento cinematografico dell’anno. In realtà non ha creato scompiglio ai botteghini, ma neppure ha dato vita a quel fenomeno che rende “cult” una pellicola. I perché sono molti: non è piaciuta la storia, il film è sbrigativo, pochi hanno visto o ricordano il primo, la storia non cattura e così via… Si salva la colonna sonora, bellissima, opera dei Daft Punk. Tutto questo è, senza dubbio, vero. Eppure sulla carta Tron – Legacy voleva essere un film mainstream e la Disney ci ha investito parecchio, ma nonostante la potenza di fuoco del marketing della fabbrica dei sogni, non ha sfondato. Alle valide e sensate motivazioni tecniche (sulle quali non metto parola), Tron – Legacy mostra chiaramente il limite della nostra epoca e, soprattutto, del nostro tempo (per non parlare dell’italietta): l’incapacità di pensare il futuro. Nelle recensione cartacea sostengo (a film ancora non visto) che il comics è brutto (sintetizzo), incapace di rendere giustizia a quello che, in teoria, avrebbe dovuto essere e dire il film. Da qui vorrei partire – quindi concedetemi una lunga divagazione – per arrivare a parlare del manga “Pluto” di Naoki Urasawa e Takashi Nagasaki, edito da Panini Comics, miniserie di 8 numeri (conclusa), una nuova visione di “Astro Boy Il più grande robot del mondo”, manga cult per un’intera generazione di giapponesi, ma non solo. Procediamo con ordine e con calma, non ci manca spazio e non ci manca tempo.
Nel 1952, sette anni dopo della Guerra, la casa editrice Mondadori lancia Urania, una collana di romanzi e una rivista, ispirandosi per il nome alla musa dell'astronomia. La rivista finisce le pubblicazioni dopo 14 numeri, ma il nome rimane legato ai romanzi, che invece incontrano subito i favori del pubblico: il primo è Le sabbie di Marte di Arthur C. Clarke, che esce il 10 ottobre 1952. Fu un successo senza eguali e a fantascienza divenne un genere di massa. Stessa cosa negli Stati Uniti e nel resto d’Europa, dove iniziative simili a quella di Mondadori portarono nelle case di tutti libri su un ipotetico futuro. I filoni erano differenti: si andava dal catastrofismo alle malattie, dalle mutazioni genetiche ai virus, dallo sterminio alla dominazione, dall’esplorazione di nuovi mondi agli alieni. Tutto questo figliò serie TV (da Spazio 1999 a Star Trek, per citare le più famose) e film capolavori (da Il pianeta delle scimmie a Star Wars su fino a Blade Runner). La fantascienza, insomma, da un genere di narrativa popolare di successo, le cui radici sono nel romanzo scientifico, si è presto estesa agli altri mass media: cinema, fumetti e televisione. Fu, letteralmente, una moda, ma anche vera contro-cultura che parlava dei rischi dell’iper-sviluppo tecnologico che il mondo intero, dopo la fine del Conflitto Mondiale, si trovava a vivere. La Guerra Fredda (USA vs URSS) diede nuova linfa e il rischio atomico nuovi temi e nuove frontiere. Poi arrivò il computer e l’idea di rete: altro carburante alla macchina con nuovi film (War Game, Tron e così via), nuovi libri (Il neuromante su tutti), nuove serie TV (Automan, i sequel di Star Trek). Poi arrivarono gli anni ’90 e la tendenza si invertì: la fantascienza era nelle case di tutti con il pc, i cellulari, le comunicazioni satellitari, le astronavi. Il 2000, anno fantascientifico per eccellenza, non cambiò il nostro mondo, anzì, lo fece regredire: dalle macchine volanti sognate e immaginate si passò a gruppi di fanatici religiosi che scappano in moto; a gente che si raduna per feste popolari; a credenze e credulità per maghi, dei e santoni; a forme diffuse di superstizione (il 2012, il Graal e l’astrologia) e, infine, a un esasperato localismo che è tutto fuorché voglia di esplorare nuovi pianeti, nuovi mondi e nuove razze marziane che si trovano “la dove nessun uomo è mai giunto prima”.
Il fallimento di Tron – Legacy mostra chiaramente come, da un lato, non siamo più capaci di pensare il futuro (cosa che invece riesce, e molto bene, ai Daft Punk nella colonna sonora) e, dall’altro, come la fantascienza, oggi, sia ormai incapace di essere il linguaggio portatore di questa potenza. Di fatto, dunque, non è solo questione che viviamo il mondo immaginato da quegli autori, ma che non abbiamo più alcuna capacità di immaginare il futuro - infiniti futuri - perché, è chiaro, ne abbiamo paura, non lo vediamo più come una certezza e, soprattutto, non investiamo nel suo imminente arrivo. Nel film c’è un passaggio chiave. Il padre, imprigionato nella rete da 20 anni (quindi dagli anni ’80, non a caso) chiede cosa è successo nel mondo reale. Il figlio risponde ed elenca le tecnologie che il padre può apprezzare: internet, accesso gratuito, wi fi, cellulari. Il padre risponde: “Sono cose che già progettavo nel 1985, niente di nuovo”. Appunto.
Il Tron del 1982 è un film di speranza: sconfiggere la perfezione e la rigidità del Sistema (non a caso) per ridare vita, gioia e futuro. Tanto che il protagonista tornerà – lo scopriamo solo nel secondo – nella rete proprio per costruire un nuovo mondo. In Tron – Legacy l’obiettivo è tornare a casa. Il figlio rivuole suo padre, per vivere finalmente una vita felice, tranquilla; vuole ricreare il nucleo famigliare. Ci riuscirà con… bhe andate a vederlo, ma è emblematico. Di fatto: è il passaggio di testimone, ma per una vita tranquilla, non certo spericolata (Tron è dell’82, come la canzone di Vasco appunto…). La vita tranquilla – cantata da Tricarico, giustamente più volte sfottuto da Vasco nei live – è quanto sa offrire oggi la fantascienza, o quanto resta di essa. Non è un caso che il massimo del genere, oggi, sia il ritorno al passato con la conseguente ricostruzione fedele di quello che è stato: ambienti, valori, tecnologie e situazioni. Si ambisce a un ritorno, fantascientifico, al passato: zero rete, zero tecnologie, cibi sani, film puliti, libri chiari, storie semplici, valori della terra, Dio, Patria, Famiglia.
Tron – Legacy fallisce come film fantascientifico perché non è più fantascienza classica – e dire che ci sono due idee molto interessanti che si potevano sviluppare sul modello di Matrix e Avatar: mi riferisco al problema delle ISO e all’idea di Perfezione esasperata che nascondono il desiderio di stabilità e immortalità. Tron – Legacy, invece, è un film che ci dice quello che siamo oggi.: falsi santoni che, come il protagonista, vogliamo stare fermi, “perché questo è l’unico modo che abbiamo per battere il Sistema. Non dobbiamo giocare con lui”. Se la soluzione alla crisi umana, sociale e civile in cui siamo è lo zen, bhe… che la crisi ci spazzi via!
Di tutt’altra natura è, appunto, il manga “Pluto”, un eccellente prodotto, un ottimo fumetto, una storia bella e potente, che cattura pagina dopo pagina, lentamente.
“Pluto” è il seguito ideale di “Astro Boy”, scritto da Osamu Tezuka, uno dei manga cult per eccellenza, che ha dato vita, come da buona tradizione giapponese, alla versione anime e a varie pellicole. In “Pluto” si narra una vicenda laterale, un seguito ideale, che ha fra i protagonisti Atom, il robot appunto di “Astro Boy”. Uno spietato assassino, robot ovviamente (Pluto), sta uccidendo tutti i sette più grandi e forti robot del pianeta. Le indagini sono affidate all'ispettore Gesicht, uno dei sette di cui si diceva, nonché membro dell'Europol. La vicenda è un crescendo con toni che avvicinano la storia al genere thriller più che al giallo e al noir, pur se i tratti di questi non mancano. La fantascienza la fa da padrone nell’ambientazione della vicenda perché, di fatto, i crismi e i topos del genere non invadono in modo massiccio quanto narrato. Si tratta di una storia di chiara matrice fantascientifica, ma è anche e soprattutto un ottimo thriller che tiene la tensione fino alla fine e che lega il lettore alla vicenda. Se la storia è lineare e chiara (tutt’altra risma da “Death Note” per intenderci) allo stesso tempo la trama si sviluppa con colpi di scena che sono ben disseminati in ogni singolo volume (è pur vero che in origine il manga esce in rivista, a puntate, ma le svolte sono ben calibrate anche nei volumi che raccolgono la storia completa). Tutto questo fa di “Pluto” un ottimo fumetto, un’ottima storia che ci racconta un’immagine positiva e viva del futuro, cosa che, come abbiamo detto, non è stato in grado di fare “Tron”.
Se vogliamo continuare nel gioco dei paragoni, “Pluto” richiama la pellicola “Moon” del giovane Duncan Jones (il figlio di David Bowie), un film straordinario che ha un poco riacceso le speranze in ambito fantascientifico. Se togliamo “Avatar”, fantascienza di massa, il genere, nel cinema, è ai minimi storici. Sono lontani i fasti di Star Wars (che non a caso viene riproposto ormai in tutte le salse, dai cartoni animati alle parodie dei Griffin, dai cofanetti con pochi secondi inediti, alle versioni blu ray) e di Star Trek. Non sta meglio la letteratura dove ormai neppure le grandi case editrici investono nel genere (l’unico romanzo degno di nota è Flashforward), per non parlare delle serie tv: terminata “Battlestar Galactica” resta il deserto, con il faro del remake de I Visitors, ma poca roba. Nel mondo del fumetto, invece, sopravvive il genere e l’ambito manga si presta, da sempre, ad essere un’avanguardia. È ovvio che oggi le prerogative della fantascienza sono altre da quelle degli anni ’60 e ’70, quando la corsa alla Luna, ma anche semplicemente a lanciare oggetti di metallo pesante nello spazio, era la prassi di un modo di vedere il futuro: viaggi, nuove frontiere, confini infiniti, mondi da esplorare, genti diverse da mescolare senza il terrore dell’altro invasore (pur se, va detto, l’alieno è comunque sempre stato il “cattivo” per eccellenza). Ma lo spazio infinito non era solo nelle distanze siderali, ma anche quello presente qui sulla terra, quello che intercorreva fra uomini e donne schiavi del dominio tecnologico – a ben vedere, oggi, non siamo molto distanti da quegli scenari, l’unica vera differenza è che ad oggi, forse, le macchine non sono ancora dotate di propria volontà (word a parte…). In “Pluto” i robot sono dotati di volontà, ma anche di umanità: sono in grado di camuffarsi fra gli umani, ma anche di vivere a stretto contatto con loro, provando, in molti casi, emozioni e sentimenti umani; mangiano, bevono, non sentono i sapori, ma di fatto conducono una vita “umana”. Il problema è che l’umanità dei robot è priva (ma sarebbe corretto dire che è “privata”) – e questo è davvero l’elemento geniale del manga – di alcune passioni proprio quelle che rendono l’uomo, di fatto, non programmabile (e, quindi, non un robot). Se il robot può, e deve, essere programmato, anche e soprattutto seguendo le fondamentali leggi della robotica di Asimov (non c’è fantascienza buona se non ci sono le leggi della robotica, non c’è santo che tenga, sono un’idea geniale e basta), l’uomo invece è libero, come ben sappiamo, di leggi che lo programmano non ce ne sono, tutt’al più, ci sono norme che limitano e correggono, ma non che pre-esistono e pre-comprendono (tanto che l’uomo, se vuole, può anche decider di togliersi la vita). Se la presenza delle leggi, dunque, garantisce il controllo dei reati, ma soprattutto delle azioni delle macchine, il fatto però che queste possano provare emozioni implica che le possibilità d’azione di queste macchine si allargano, e fin qui nulla di nuovo, perché appunto permane pur sempre il controllo garantito dalla legge. Il problema è l’imprevedibilità che eccede la legge e che entra in gioco quando, nella programmazione, è inserito l’elemento caotico per eccellenza: le emozioni, le passioni umane (molto interessante, da questo punto di vista, il remake attuale dei Visitors, dove i gelidi e cinici visitatori sono contaminati dalle passioni umane; un tema, questo, caro anche a Star Trek e al dottor Spock ovviamente… ma in quella fase storica era la razionalità e il conseguente pragmatismo ciò che doveva emergere, e questo è possibile solo se si eliminano le passioni umane, come appunto accadeva nei “fratelli” vulcaniani; negli attuali Visitors le passioni umane rendono meno spietati i visitatori, li avvicinano a noi umani, li rendono più – banalmente - buoni e comprensivi verso la nostra gente, più simili a noi, all’idea di quello che vorremmo essere, eliminando così la diversità, la peculiarità dell’essere altro).
Cosa accade se, come in “Pluto”, la purezza di questa etica controllata e disciplinata dei robot è intaccata da un sentimento “umanoide” quale, ad esempio, l’odio? Che le carte si scompaginano al volo, proprio come quando si è in preda all’odio… più ancora che all’amore, senza dubbio; perché se nell’amore c’è una tensione all’alto, all’ordine, alla ricerca di ciò che si desidera di più (con relativa volontà di possesso anche in eccesso), nell’odio prevale, invece, lo scompaginare le carte, il metter tutto a repentaglio, la creazione del caos randomico che porta alla totale imprevedibilità (ben inteso, è un modo di vedere il caos che ha come polo positivo l’ordine). Ecco che i sette robot di “Pluto” sono tutti eroi più che positivi, portatori di buoni sentimenti, di amore per il prossimo e di sostegno per l’umanità. Il piano è quello di eliminare, con un robot più potente, perchè carico d’odio (ma solo quello, come sentimento predominante), tutti e sette i preziosi ed unici robot. La loro potenza è nei buoni sentimenti che rappresentano e che incarnano; ma ormai – è cosa nota – è l’epoca del “lato scuro”, del dark side, del cavaliere oscuro, che ha eliminato quello azzurro che arrivava sul bianco cavallo e ripristinava il bene cacciando il male. Ora è chiaro a tutti che la rabbia e l’odio non conducono più solo e semplicemente “al lato oscuro” (come teme il maestro Yoda), ma sono ciò che ci più ci caratterizza e che ci permette di essere umani, finalmente solo umani, con macchie e peccati. Finalmente, lo ribadisco!
Chi lotterà contro Pluto? Atom, “l’Astro boy”. Ucciso in un primo tempo, il bambino robot famoso per la sua bontà e umanità, si risveglia (non era morto del tutto insomma, è pur sempre un robot…), ma qualcosa è cambiato… per essere più potente e per essere completo – non è un caso che venga utilizzata proprio questa parola – aveva bisogno dell’odio! Questa aggiunta è ciò che lo rende diverso, non più innocente, ma di sicuro più potente, ben più di quanto ci si aspetti. È la fine dell’infanzia, non solo reale, cronologica, ma anche esistenziale: il bambino diventa uomo, adulto, contaminato... Ma è anche la fine della fantascienza classica, bene contro male, buoni contro cattivi e si apre anche qui, finalmente, il rinnovamento che porterà, si spera, alla maturità di un genere ormai abbandonato, forse perché rimasto troppo infantile per un mondo e una società non di certo adulti, ma cambiati e mutati rispetto agli anni ‘70 e ’80, grazie anche e soprattutto a quel genere che ora ha necessità di rinnovarsi. Pluto, dunque, è un passaggio importante in questa direzione, Tron Legacy no. Pluto innova, Tron Legacy conserva.
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